Canzone Napoletana a Napoli: ma i napoletani vogliono veramente ascoltarla? – Sarà ridondante, ma è sempre bello ribadirlo: la canzone napoletana è una delle tradizioni musicali più amate e celebrate al mondo. Tra aneddoti, fattarielli, agiografie e leggende, sapete Yuri Gagarin quale canzone sceglie di canticchiare non appena le porte verso l’infinito ed oltre gli si aprono davanti? ‘O Sole mio, ma che domande. Ma dopo questa “solida” (si fa per dire) premessa, atterriamo nuovamente nella nostra città dove una domanda che pressa c’è: ma la canzone napoletana, i napoletani, vogliono veramente ascoltarla?
Se s’avverte una disaffezione, una delle ragioni più ovvie potrebbe essere il tempo: che va avanti si trasforma e si adatta a ciò che viviamo, a quello che vogliamo dire. La nascita di nuovi generi musicali ha modificato anche la composizione di un testo, ora forse più ermetico e diretto, che spesso aderisce solo alla melodia (laddove presente) e si priva di significato. Ma ancora una volta: sono solo i tempi che cambiano. La canzone napoletana, con le sue melodie “classiche” e le liriche poetiche, potrebbe sembrare fuori luogo in un mondo musicale sempre più dominato da ritmi frenetici e produzioni sofisticate. Non si pensa mai al tempo come una linea continua, come ad un viaggio in avanti: se il confronto col passato esiste, è sempre per sottolineare quanto questo sia migliore rispetto al presente, un meccanismo che va avanti da generazioni. Per la buonanima di mio nonno, tre soli erano degni di essere denominati cantanti: Sergio Bruni, Franco Ricci e Mario Merola. Scimmiottava poco amorevolmente i miti di mio padre, Battisti e la sua “che ne sai tu di un campo di grano”, e Jovanotti ‘o zuzzuso. Non che mio padre non abbia i suoi dubbi sulla contemporaneità. Lui (primo fan dell’unico ed inimitabile Claudio Baglioni) oggi, non si capacita di come i Pinguini Tattici Nucleari abbiano riempito Campovolo, e del perché i nuovi astri nascenti non riescano ad avere un nome cristiano (tipo Francesco), ma scelgano geroglifici o sillabe che ricordano analisi del sangue (Blanco, il TRE, LDA, NDG). Potrebbe essere quindi poco probabile che un giovane fan di Sferaebbasta sappia dell’esistenza di Enrico Caruso o di Gennaro Pasquariello. Esiste un’enorme distanza, pregna di pregiudizio a mio avviso, che porta (e lo farà sempre più) le nuove generazioni ad abbracciare la musica che risuona con le loro esperienze e il loro contesto attuale, ritenendo che solo questa sia veramente in grado di comprenderli. Si privano quindi della possibilità di scoprire le canzoni del così detto passato che tanto ora, come allora con le proprie di generazioni, erano (e sono) in grado di essere empatiche. Perché questo circolo vizioso? Stringiamo il campo d’azione e soffermiamoci per bene sulla nostra città: la canzone napoletana, quella del passato, classica, antica, chi più ne ha più ne metta, si trova ora ad affrontare una serie di sfide complesse: se prima contribuiva all’identificazione di un popolo con la propria città, ora il suo ruolo è messo in discussione dalle nuove generazioni che non vi si rispecchiano perché appunto la trovano semplicemente vecchia. La canzone napoletana rischia di essere vista come un elemento folkloristico, che non riguarda più noi ma una parte di noi che fa comodo essere vista, un marchio sempre verde che ci identifica subito come i microchip negli animali. Il nostro classico e deprimente luogo comune: ‘O mare, ‘o sole, ‘o mandulino e… Funiculì Funiculà!
In questo contesto vive Napulitanata, che si dedica a mantenere viva la canzone napoletana nel tessuto culturale di Napoli; è un esempio eloquente di come gli appassionati di musica stiano lavorando attivamente per preservare e promuovere la canzone napoletana. Fondata da un gruppo di musicisti, appassionati ed esperti culturali, l’associazione si è posta l’obiettivo di celebrare e diffondere la ricca tradizione della canzone napoletana. Una delle sue attività principali è lo spettacolo dal vivo: nell’intimità di alcune delle voci e dei musicisti più talentuosi che abbia mai ascoltato, ci si immerge completamente nell’atmosfera unica del repertorio. Ci sono degli elementi curiosi dietro questi format, elementi che offrono grandi spunti di riflessione.
Il primo punto da stabilire è l’obiettivo, ovvero, nel caso di Napulitanata, la diffusione della canzone napoletana attraverso una sala concerto, sala che deve essere ovviamente “riempita” da un pubblico. E chi è questo pubblico? Assodato che i turisti riempiono Napulitanata, i napoletani dove sono?
Nel contesto dei cittadini napoletani, emerge un quadro diversificato di prospettive e atteggiamenti nei confronti della Canzone Napoletana. Esiste l’appassionato del settore (musicista, cantante), l’esperto, cui feeling nei confronti di un lavoro come quello proposto da Napulitanata può far storcere il naso, insospettire. I non addetti ai lavori rappresentano paradossalmente una fetta di target (buyer personas) più facilmente coinvolgibile. Comitive di 50/60enni alla ricerca di serate “divertenti” oppure coppie più giovani (universitari o giovani professionisti) mostrano un forte interesse e rappresentano potenziali clienti significativi, ma anche in questo caso, non perché interessati in modo specifico al repertorio musicale in questione, ma perché sono alla ricerca di momenti culturalmente appaganti per il proprio status.
Quindi perché la musica napoletana fatica ad essere accettata per quella che veramente è?
Tanti sono i piccoli ma significativi episodi a cui assisto alle serate concerto che acuiscono la mia perplessità. Esempio tipo: moglie e marito che regalano ai suoceri anziani, un concerto da Napulitanata. I vecchietti si accomodano con la curiosità e la felicità di chi sa ancora come divertirsi. Ricorderanno quando avranno ballato un lento su Te voglio bene assaje, o si saranno sfrenati su Tu vuò fà l’americano. Non vedono l’ora di raccontarlo alla figlia e al genero con nipoti annessi che sono andati a riprenderli. E allora la nipote sbircia un po’ nelle vetrine della sala per capire di cosa si parla. Chissà se la sua curiosità si è fermata li.
Altro caso tipico: la nipote (cinquantenne napoletana) che porta gli zii di Miami (con origini napoletane) ad ascoltare un nostro concerto. In questi casi sono stati gli zii d’America (è proprio il caso di dirlo) ad aver cercato e trovato Napulitanata e non la nipote che aveva la nostra sala dietro casa.
Perché non vogliono più ascoltarla, mi domando. Semplicemente la si crede vecchia, legata al passato. E il passato non viene insegnato come parte integrante del tempo, ma come di un tempo delimitato da un inizio ed una fine. Le continue messe in discussioni e paragoni danno vita ad un banale binomio: vecchio- cattivo/ nuovo- buono, e viceversa.
Perché non vogliono più ascoltarla indipendentemente da chi la canta, mi (ri)domando. Se è la voce calda di Massimo Ranieri, o la più recente de la Nina, siamo estremamente entusiasti di ascoltare Era de Maggio. Sempre da Napulitanata, se ci chiama un nostro concittadino per prenotare, la domanda di rito è “Ma chi canta?”: e se invece cantasse una (bella) voce senza volto e senza un nome, la ascolteremmo comunque, indipendentemente dal personaggio? La canzone napoletana dovrebbe essere la nostra maglia azzurra, dovremmo avere voglia di ascoltarla con lo stesso entusiasmo con cui andiamo allo stadio (ok, stiamo esagerando). Bisognerebbe ascoltarla ad occhi chiusi e riceverla per quello che è: un dono. Anche il paragone con Fado e Flamenco è diventato ridondante: loro stanno avanti, i loro repertori sono le loro bandiere da sventolare fieri. Noi invece stiamo a chiederci se la nostra musica è identità o stereotipo, stiamo a ripeterci che ‘O sole mio e Funiculì Funiculà sono canzoni inflazionate senza pensare che sono capisaldi da cui partire per intavolare un qualsiasi discorso musicale nel Mondo.
Se siamo ancora in tempo dipende dalla volontà di preservare e rinnovare la canzone napoletana. Mentre i cambiamenti nei gusti musicali sono una realtà inevitabile, è possibile mantenere vivo il patrimonio culturale attraverso, “semplicemente”, l’educazione.
Napulitanata permette questo piccolo gigante passo con il solo scopo di farci (ri)conoscere il nostro patrimonio musicale per quello che è: puro, immenso ed indescrivibilmente bello. Che non ha bisogno di tramiti, se non di una voce che l’accompagni. È questo il compito dell’educazione attiva alla cultura: ci libera e viaggia insieme a noi sulla linea del tempo.
Di Alessia Thomas
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