Ferdinando Russo, poeta napoletano: una mia riflessione
Ferdinando Russo, poeta napoletano: una mia riflessione – Ferdinando Russo (Napoli 1866-1927) è uno dei poeti italiani noto come autore di canzoni napoletane. Egli non completò gli studi ed entrò come correttore di bozze alla gazzetta di Napoli e lavorò anche al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Si impose come giornalista per la vita quotidiana della città e avviò una proficua collaborazione con alcuni musicisti con i quali produsse canzoni napoletane. Fu famoso per la sua criticità verso l’unita d’Italia e lo stato unitario. Per decenni il poeta è stato vittima di vari aneddoti, fu descritto come uno sciupa femmine e venne soprannominato “ ‘O Studente”, fu addirittura chiamato camorrista. Al contrario, egli frequentò uomini d’onore e l’unica accusa verosimile fu quella che lo indicò come un borbonico sfegatato.
Leggendo le sue poesie l’anima popolare è presente ad ogni verso, egli dà voce agli strati più bassi della popolazione, lascia che questa si sfoghi. Un esempio è “ ’N Paraviso”, dove egli immagina di fare un viaggio nel Regno dei Cieli e di interfacciarsi con vari santi che raccontano storielle di un paradiso che somiglia più alle strade di Napoli che a quello descritto da Dante Alighieri. Veniamo catapultati in un paradiso celeste napoletano, dove anche i Santi parlano in dialetto, spettegolano e bisticciano.
La poesia di Russo è narrativa e descrittiva, il lettore riesce ad immaginare ciò che legge, riusciamo a percepire anche una lieve malinconia, che non è propria del poeta ma che tuttavia è parte dell’animo napoletano. Notiamo una voce sensuale e maliziosa messa appunto per non arrendersi all’amarezza, per fuggire dalla malinconia.
Andiamo ad analizzare un poemetto che ho trovato interessante: ‘O Saluto
Nce ne jammo. E nfaccia ‘a porta
Veco tanto n’avuciello,
gruosso quant’a nu cavallo,
e cu ‘e scelle ‘e cestariello.
Saglie ngroppa, statte attiento,
e a, scrive bboni ccose,
me dicette Santu Pietro;
e che ssiano rispettose!
Nun fa’ diebbete, va chiano,
e rispetta ‘e Sacramente;
fatte sempre ‘o fatto tuio,
e n’ave paura ‘e niente!
Chi cammina p’ ‘o dderitto
Nun po’ mai ntruppechià!
Chisto è frateto ca parla!
Che te pozzo aggevulà?
-Santù Piè… na grazia voglio…
-Va dicenno, figlio mio…
-‘O cerviello e ‘a bbona sciorta…
-E va bbuò, lassa fa’ a Dio!
E stennènnome na mano
me dicette: – Afferra ‘a bbriglia!
Tiene forte, e buon viaggio!
Tanti ossequii alla famiglia!
In questa poesia, vediamo il nostro poeta che parte per ritornare nella città di Napoli. Egli, prima di partire in groppa ad un uccello, chiederà a San Pietro “ ‘a bbona sciorta”, ovvero la buona sorte, la fortuna. Il Santo gli dirà di affidare tutto nelle mani del Signore e il poeta partirà. Qui vediamo una delle tante caratteristiche del popolo napoletano, cioè quella di aspettare, di desiderare, a ‘ciorta. Il popolo napoletano si sa, è superstizioso ed usa questo termine per indicare una fortuna sfacciata o dannata. Essa ha più a che fare con il destino che con la fortuna, non si interviene su di essa ma ci si può preparare ad accoglierla. Come detto prima, la sorte non è solo fortuna ma anche dannazione, che nel dialetto napoletano viene indicato con il termine “ ‘a mala ‘ciorta”, ovvero, la cattiva sorte. Un’altra caratteristica di noi napoletani è quella di affidare tutto nelle mani del Signore, “Chi vo’ grazia a Dio, nu’ porta pressa”, vale a dire, che Dio quando vuole ti aiuta perché Lui sa quello che deve fare.
Di Maria Paola D’Elia
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