La Canzone Napoletana ‘A Nuvella, nove parti di un’unica storia
Seconda e terza strofa e l’inizio della mia storia con Napulitanata.
Ddoje ce steva n’ommo
ca teneva ddoie cape,
chesta storia accummencia accussì.
Ddoje ce steva n’ommo
ca teneva ddoie cape,
Una è la nuvella ca te voglio cuntà.
Tre so’ li bellezze de la figlia d’o rre:
l’uocchie, ‘o core e lu bellu parlà;
l’ommo cu ddoje cape se la vuole spusare.
Tre so’li bellezze de la figlia d’o rre.
Ddoje ce steva n’ommo
ca teneva ddoie cape,
Una è la nuvella ca te voglio cuntà.
C’eravamo lasciati all’introduzione del brano e, nonostante abbia già cominciato ad anticipare un po’ il focus della storia nell’articolo precedente, è solo dalla seconda in poi che la fiaba comincia a sbrogliarsi. Mi preme sottolineare un aspetto importante: il termine “novella” ha più di un significato. Può riferirsi a una “notizia”, oppure, in letteratura, alla narrazione di una vicenda reale secondo uno schema narrativo con una più o meno palese aspirazione artistica. Il carattere immaginario o fantastico della novella può simboleggiare, nel linguaggio comune, l’idea di inconsistenza o incredibilità. Può essere intesa anche nel senso di chiacchiera. È con questo occhio critico che la nostra immaginazione si deve allenare nel leggere ‘A Nuvella: potrebbe sembrare tutto o niente, eppure, personalmente, il significato è ben chiaro. A poco a poco lo scopriremo insieme.
Una delle caratteristiche che mi incuriosisce di più del brano è il suo costante ritorno alle strofe precedenti, un po’ come ne “La fiera dell’est”, che tutti abbiamo cantato almeno una decina di volte, cercando di seguire la storia fino alla povera fine del topolino “che per due soldi mio padre comprò”. Da quando ho cominciato a far cantare questo brano ai bambini della mia classe, sto sperimentando e scoprendo un nuovo significato; mi accorgo che, in parte, calma i loro impeti animaleschi, forse perché sono affascinati dal dialetto, e in parte perché si divertono a urlare “Allero!” ad ogni strofa, facendomi ribollire le cervella. Inoltre, anche attraverso i gesti, rimangono sempre più affascinati o intontiti dal significato delle strofe, ogni volta che si torna indietro a narrarle. Credo sia per questo che sono diventati così bravi nel ricordare ogni passaggio precedente, che si conclude sempre con “una è la nuvella ca te voglio cuntà“, perché comprendono sempre più il senso, seppur strambo, di una realtà che è a loro affine. Il ripetersi delle strofe non solo rinforza la loro memoria, ma li immerge in una narrazione ciclica che li tiene incollati alla storia, rendendo ogni ritorno un momento di attesa e scoperta. La magia del brano sta proprio in questo: nel suo saper affascinare, divertire e, al tempo stesso, far riflettere.
All’intelligenza brutale e allo sguardo disincantato dei bambini non puoi scappare: se per loro è normale accettare che esista un uomo con due teste, dall’altro ti deridono e ti dicono “Ma come, un uomo con due teste? Mica esiste!“. Ed è questa contraddizione che li rende, seppur ‘A Nuvella non sia Hercules, il pubblico adatto per una storia del genere. Un uomo con due teste si innamora della figlia del re, che possiede tre bellezze. Mimo queste qualità mentre canto: gli occhi, il cuore e il bel parlare. L’uomo non si innamora di qualità puramente estetiche, ma di qualità emotive e umane.
Gli occhi che guardano la vita senza giudizio, un cuore buono, disposto ad accogliere e perdonare, e una bocca capace di parlare dolcemente. Almeno, è questo che mi piace pensare e trasmettere loro, il cui cervello è ancora in grado di comprendere e accettare le differenze come l’umana vita vuole. D’altronde, come detto in precedenza, una volta i destinatari di queste crude realtà narrate o cantate erano loro.
Affiancare la mia esperienza da Napulitanata con le nove parti della Nuvella è stata una scelta prettamente economica (avevo bisogno di una struttura fittizia che mi supportasse nel mettere in ordine dodici mesi di vita) e sentimentale. Più l’ascolto e la canto, più si rafforza in me il sentimento di pura ammirazione nei confronti della canzone napoletana classica.
Forse il mio percorso e quello dei miei compagni non è stato proprio una fiaba, ma sicuramente una serie di avventure dal lieto finale, che hanno tutte in comune, sì, la crescita professionale, ma soprattutto quella umana. Senza quella, tutti i campi della nostra vita sarebbero effimeri.
L’inizio della mia storia con l’associazione l’ho raccontato spesso: quando ho fatto domanda per il Servizio Civile Universale, la disperazione nel trovare un minimo sostegno economico era tale che, mi fece scegliere alla ceca l’ente a cui fare domanda e storsi il naso nello scoprire che avevo cliccato sull’associazione: una loro lezione concerto all’università me li fece percepire chiassosi, professionisti di un genere che allora non volevo capire e che trovavo datato.
Ho cominciato a sospettare del mio essere malpensante quando Mimmo e Valeria hanno voluto conoscermi a tutti i costi nonostante avessi deciso di rinunciare: volevano scommettere su di me.
Nella mia permanente riluttanza condita con un po’ di orgoglio personale, decisi di provare ad incastrare il servizio civile con il lavoro a scuola che sarebbe cominciato a breve. Nessuna delle due scelte mi entusiasmava, la seconda ancor meno della prima. Mi avvio una mattinata di giugno verso Galleria Principe; l’aria è afosa e puzza: di piscio, di smog, di caldo. È stonata: di clacson, di urla, di passi di gente che si accalca. Spesso è anche brutta da guardare: è evidente che ho un rapporto complesso con la mia città.
Ma qualcosa sta per migliorare. Quando vedo un logo blu e bianco rettangolare sopra una porta, una porta alla quale non avevo mai (voluto?) fatto caso, qualcosa cambia. Mi viene incontro Mimmo. All’inizio mi spiega come aprire la serranda, protagonista funesta di molte nostre disavventure, e poi mi fa entrare nel silenzio. L’aria si rasserena, ora è pregna di polvere che si nasconde tra i libri, gli strumenti, le candele. La vista si acquieta dalle luci soffuse; i miei occhi cominciano a vedere qualcosa di bello e sconosciuto. “Bellella, eh?” mi fa Mimmo. Sì, proprio bellella.
Di Alessia Thomas
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