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Napulitanata e il valore umano di Enrico Caruso

Napulitanata e il valore umano di Enrico Caruso – Io e la mia compagna di viaggio abbiamo accolto gli ospiti in un bel sabato novembrino, buio e freddo, due bei giovani nostrani che, come molti, non avevano mai sentito parlare di Napulitanata. Con gli occhi leggermente strabuzzati, hanno ascoltato la storia del posto, forse un po’ storditi dalle voci mie e di Antonietta troppo entusiaste manco stessimo facendo una televendita. Con altrettanta gioia abbiamo dato qualche nozione sulla mostra per la quale avevano prenotato, e che da qualche settimana la sala ospita: Made in Caruso. Spieghiamo che, dopo la vincita di un bando regionale, per celebrare il 150 anni dalla sua nascita, Napulitanata ha ottenuto il materiale dall’Associazione Villa Caruso Di Bellosguardo in Toscana, dimora del tenore, e dal Peabody Institute of the John Hopkins University di Baltimora, nel Maryland. Le fotografie, locandine, spartiti e illustrazioni incorniciano le pareti della sala e grazie l’aiuto dei modernissimi QR-code, possono ascoltare i brani più famosi interpretati dal tenore.

Dopo un sincero “scusate, ora vi lasciamo guardare la mostra in pace”, io e Antonietta ci sediamo e, facendo le finte gnorri, li osserviamo: dopo un po’crediamo che quello fra i due fosse un primo appuntamento, o comunque uno dei primi incontri. Faccio caso che, ad ogni tappa, si confessavano un qualcosa di personale, alternando momenti di silenzio per osservare una foto, o una locandina, per poi lui aiutare lei ad inquadrare il QR-code e ascoltare assieme la canzone. E poi ritornare a parlare delle proprie vite. Un’altra foto, un’altra canzone, un altro spartito e “magari dopo andiamo a prenderci un caffè, ti va?”. Chissà se l’hanno veramente preso, ci domandiamo io e Antonietta. A noi piace pensare di sì. Che qualcosa di nuovo e bello sia nato proprio nella piccola grande sala, con Caruso che osservava.

È difficile che l’arte non sia romantica, qualunque significato (più contemporaneo o in letteratura) vogliamo dare a questo termine: riesce inevitabilmente ad unire due menti, farle incontrare nel mezzo, generare memoria. Chi di noi non associa quel ricordo ad una canzone? O quella cosa che è successa “dopo aver visto quel film”. Tutti noi, almeno una volta, abbiamo vissuto un momento del genere.

In uno dei miei primi scritti per Napulitanata, riflettevo su quanto questa avesse mi avesse fatto riscoprire la gioia della mia compagnia, di come sentissi di meritare la felicità che quell’ora di concerto trasmetteva, di come la scoperta di un repertorio che consideravo atavico fosse più vicino a me di quanto mi aspettassi. Con Enrico Caruso è avvenuta la stessa cosa.

Spesso mi sono domandata se Caruso e Carosone fossero la stessa persona e basta questo a far capire il mio livello di ignoranza nei confronti del tenore; di lui conoscevo solo la meravigliosa canzone di Lucio Dalla, Caruso, (dal live album dal curioso titolo DallaAmeriCaruso) ma solo ora mi sono applicata veramente a capirne il significato. Un fortuito incidente di percorso, un guasto della propria imbarcazione, costrinse il cantante bolognese a sostare all’Hotel Vittoria di Sorrento, nella stanza che aveva ospitato Caruso poco prima della sua scomparsa. In quella camera con un piano scordato, Caruso impartiva lezioni di canto ad una giovane per cui cominciò a provare una tenera ed intima passione. Le stesse che Dalla immette nel suo capolavoro, immaginando quegli ultimi giorni.

La vita del tenore, come penso essere quella che tocca a chi è destinato diventare grande ed immortale, è stata complessa, forse piena di paranoie, sacrifici e dolori, che ironicamente hanno donato a noi immensi regali. Non mi dilungherò nel raccontare episodi che per prima non ho verificato, mi piace però pensare ad una sua ipotetica citazione, (e non mi sorprende se questa fosse veritiera):

La vita mi procura molte sofferenze. Quelli che non hanno mai provato niente, non possono cantare.

Ho ascoltato le interpretazioni di Caruso senza aspettarmi niente, contaminata forse dalle voci che già conoscevo avessero cantato determinati brani, una su tutte quella di Pavarotti. Ma accade qualcosa di strano quando senti (e non vedi, dettaglio da non sottovalutare) leggi il testo, ed il contesto di un’opera come Pagliacci: Caruso è Canio o Canio Caruso? Dove inizia l’uno e finisce l’altro? Riuscite a vederlo mentre si trucca davanti lo specchio reprimere la propria rabbia?[1] E mentre questa vince sulla finzione, esplode in una lucida presa di coscienza, “No, pagliaccio non son; se il viso è pallido, è di vergogna e smania e di vendetta!”[2]

I meravigliosi materiali che ora Napulitanata custodisce, riescono ad alternare l’uomo e l’artista Caruso: colui che ha contribuito ad esportare il nostro valore artistico nel mondo, e colui che nonostante il trucco, è riuscito a conservare il proprio valore umano.

Vi consiglio caldamente di andare a visitare, questo valore: per vivere e condividere un momento di genuina serenità, per crearvi nuovi ricordi.

[1] “Vesti la Giubba” è la famosa aria di Pagliacci (1892) di Ruggero Leoncavallo. Intonata alla fine del primo atto, Canio, clown protagonista, si prepara per la commedia, poco dopo aver scoperto il tradimento della moglie Nedda, anch’essa attrice dello spettacolo.

 

[2] Per Canio è impossibile rimanere nel personaggio comico: la sua rabbia e dolore di marito tradito erompono in scena tanto da uccidere moglie e amante, seguito dall’orrore della folla, che solo quando ormai è troppo tardi si rende conto che quello che ha visto non era finzione scenica, ma un omicidio vero.

 

Di Alessia Thomas

 

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