Napoli e la donna: le canzoni che la celebrano
Napoli e la donna: le canzoni che la celebrano – Se penso alle donne simbolo di Napoli, ricordo che in una recita scolastica elementare interpretai l’unica sindaca napoletana donna, Rosa Russo Iervolino. Mi dissero che avevo la faccia adatta. Mi fecero pure indossare la fascia tricolore. È stata la prima volta che venivo a conoscenza di una figura femminile importante per la mia città (fede politica a parte, all’epoca, un po’ come ora, non avevo minimamente idea di cosa fosse la politica).
Non dimentico poi Partenope. Appena si acquisiscono le capacità mentali per apprendere e ricordare seriamente una storia, ecco che ti propinano la leggenda delle leggende: la tua città nasce su uno scoglio. Narra l’Odissea che Partenope, dato che il suo canto non riesce ad ammaliare Ulisse, si getta in mare trovando la morte nei pressi di Castel dell’Ovo, trasformandosi in uno scoglio sul quale sarebbe poi nata la città. Per Matilde Serao, Partenope è la vergine, la donna, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore.
Con gli anni, solo poche donne si sono aggiunte alla lista: Eleonora Pimentel Fonseca, Artemisia Gentileschi, Matilde Serao, Titina De Filippo e Sofia Loren. Con una significativa difficoltà, tento di accennarle in poche righe.
Parliamo di una poetessa, giornalista, politica e patriota, la prima, donna volto della Repubblica Napoletana del 1799, accusata di giacobinismo, viene impiccata a soli 47 anni. Parliamo di Artemisia Gentileschi, pittrice di scuola caravaggesca, figlia d’arte che a fatica riesce a rivendicare il proprio talento: stuprata da un collaboratore della bottega del padre, fu sottomessa ad un brutale e morboso processo pubblico, dove non solo subì umilianti esami ginecologici, ma venne sottoposta alla tortura del torchio[1] o della sibilla. La possibile perdita delle dita non le impedì di difendere a tutti i costi i propri diritti. Aveva 19 anni. Matilde Serao è stata la prima donna ad aver fondato e diretto un quotidiano, Il Corriere di Roma e successivamente, Il Mattino. È stata candidata ben sei volte al Nobel per la Letteratura. Titina De Filippo è stata una delle attrici teatrali fondamentali del panorama novecentesco: drammaturga e sceneggiatrice, oltre la duratura e preziosa collaborazione professionale con i fratelli Eduardo e Peppino, il cinema la vide lavorare a fianco di Totò, Gassman, De Sica, Sordi. Nomi che ritroviamo nella carriera spettacolare di Sophia Costanza Brigida Villani Scicolone. Per gli amici, Sophia Loren. La musa della settima arte che vanta ben due premi Oscar[2].
Eleonora Pimentel Fonseca. Artemisia Gentileschi.
Giuditta che decapita l’Oloferne, olio su tela, 1620.
Dipinto che potrebbe rivendicare lo stupro subito da Agostino Tassi.
Matilde Serao sul quotidiano “Il Giorno”. Titina De Filippo.
Sophia Loren.
Ricercare per questo articolo altre figure femminili che hanno reso onore a Napoli ha contribuito a rendere il mio rapporto con questa città ancora più conflittuale. Riesco ad immaginarle in prima fila, difendere i loro ideali, la loro categoria. Riesco a rivedere le donne napoletane della mia vita: le mie due nonne. Forse perché d’epoca, del sud, o proprio di questa città, ma chi l’ha mai vista quella cazzimma nelle mani e negli occhi. Le canzoni scelte non narrano di queste eroine nello specifico, ma sento comunque di riconoscerle in quelle parole. Vediamo perché.
Mio nonno mi faceva una capa tanta su Sergio Bruni. Se solo gli avessi dato retta all’epoca. Quando ho chiesto a Pasquale (Cirillo) ed Emanuela (De Rosa), rispettivamente piano e voce meravigliosi di Napulitanata, quale canzone celebrasse la bellezza in toto di una donna, quale ricordasse loro una Matilde Serao, subito mi è stato detto Na bruna, con faccia soddisfatta, quasi orgogliosa. Testo di Espedito Barrucci e Aniello Langella, musicata da Augusto Visco e Sergio Bruni anche voce del brano del 1971, Na bruna pare essere la descrizione di un sogno. Un narratore esterno ci racconta di lei, che viene da tanto lontano e rimane incantato dal sole e dalla luna. Poi da due occhi neri e da capelli bruni. La vedo arrivare dalla foschia, una donna forte e bella, che però vo’ bene a ‘n’ato: un pescatore, è di lui che è innamorata.
Furastiero, ‘e denare che so’?
Quanno ‘o core fa chello che vo’.
Chella s’è fatta ‘a croce cu ll’acqua ‘e mare,
cu ll’acqua ‘e mare.
Come se il forestiero osservasse inerme ma incantato una storia già decisa, di cui lui può essere solo spettatore. La bruna ha abbracciato la sua croce ed è andata fino in fondo, per amore.
Si tende ad avere sempre una sola visione dell’amore: quello tra due persone che condividono il sentimento. Ma l’amore ha sfumature diverse: può essere sì per un partner, ma anche per un amico, animale, libro, un ideale. La mia associazione sarà azzardata, ma si parla pur sempre di sensazioni personali. Io, come forestiera, vedo arrivare, accompagnata dalle note della canzone (che umilmente credo quasi più belle del testo stesso), una Maddalena Cerasuolo o una Luciana Viviani. Che camminano orgogliose come la bruna, testarde nel conquistare e sposare il loro amore: la libertà.
L’armistizio dell’8 settembre, identificava l’Italia come nuova nemica dei tedeschi e non più alleata. La resistenza partenopea è ricordata da tutti come Le quattro giornate di Napoli, durante le quali la popolazione napoletana è insorta dopo anni di disperazione e miseria.
In questa occasione le donne, assieme ai femminielli, hanno rappresentato l’anima di quella rivoluzione. Tra queste ne ricordiamo due di opposta estrazione sociale ma di uguali principi:
Ma il Ventotto dello stesso mese il popolo insorse contro il massacro e il sopruso, e c’ero anch’io dietro la barricata, ragazza piena di amor di patria.
Maddalena Cerasuolo, La Mitraglietta.[3]
A 23 anni, Lenuccia, di Materdei, si avvalse della Medaglia d’oro al Valor Militare per la Resistenza. Operaia in una fabbrica di scarpe, scelse volontariamente di unirsi al gruppo dei partigiani, si impegnò attivamente nella difesa dei quartieri di Materdei e Stella. Insieme ai suoi compagni, contribuì al salvataggio del Ponte della Sanità, che oggi porta il suo nome.
Luciana Viviani, nata nel 1917, terza figlia di Raffaele Viviani, è stata una delle prime donne elette in Parlamento. Da suo padre, ereditò non solo il nome, ma anche la straordinaria capacità di osservare il mondo, di dar voce a chi non riusciva ad averne una. Ottenuta la laurea in lingue e letterature straniere in giovane età, si distinse come una combattiva antifascista e sostenitrice dei diritti delle donne. Dalla Resistenza alle lotte per l’emancipazione femminile, ha dedicato la sua vita all’impegno politico e civile con inesauribile passione.
Ha partecipato attivamente alla fondazione del Partito Comunista a Napoli ed è stata tra le prime donne elette in parlamento, deputata per quattro legislature dal 1948 al 1968. Da non dimenticare è la sua partecipazione attiva all’interno dell’Unione Donne italiane (UDI) fin dalla nascita nel 1944.
Una donna semplice ma che fece dell’impegno politico e della lotta per i diritti delle donne la sua ragione di vita, portando avanti battaglie di ogni tipo e campagne per la libertà della maternità, il divorzio, l’aborto e gli asili nido.[4]
Le vedo così, spose convinte del proprio amore:
Chella s’è fatta ‘a croce cu ll’acqua ‘e mare, cu ll’acqua ‘e mare, e po ha giurato: “Io nun te lasso maje, nun te lasso maje”. |
Quella si è fatta la croce con l’acqua di mare, con l’acqua di mare, e poi ha giurato: “Io non ti lascerò mai, non ti lascerò mai”. |
P’ ‘o mare ‘na festa ‘e lampáre. ‘Nu piscatore, ‘nu piscatore, s’astregne ‘int’ê bbracce ‘na bruna cu ‘o velo ‘e sposa, cu ‘o velo ‘e sposa. pe cient’anne, |
Sul mare una festa di lampare.
Per cento anni sempre così, per cento anni sempre così. |
Lucia Viviani, 1943. Maddalena Cerasuolo, 1943.
Di Domenico Modugno – considerato unanimemente il primo cantautore italiano del dopoguerra – abbiamo già parlato, ma è sempre bello ribadire quanto abbia avuto, con la canzone napoletana, una fortunata comunione, sia come compositore che come interprete.
Nel 1956, Lazzarella cantata da Aurelio Fierro, arriva seconda al Festival della canzone napoletana ma la popolarità immediata che ottiene in tutta Italia fu immensa.
Ovviamente, il brano non ebbe vita facile: uno dei versi finali che recitava “Lazzarella tu si già mamma”, dovette essere sostituito con il verso “Lazzarella perdo ‘o tiempo appriesso a tte”. Questo cambio venne imposto perché il verso originale andava contro la morale nazionale, che promuoveva la verginità e la dimostrazione pubblica della purezza dopo la prima notte di nozze. Se il verso originale fosse stato mantenuto, il successivo “te va sempe cchiu’ strett’a camicett’a fiori blu” avrebbe assunto un significato diverso: la camicetta sarebbe diventata stretta non a causa della crescita del seno dovuta alla maturità, ma a causa di una gravidanza non desiderata.
Di conseguenza, i versi successivi “mo’ te truove tutt’e matine / chin’e lacreme ‘stu’ cuscino / manco ‘na’ cumpagnella te po’ aiutà” non avrebbero più espresso il dolore per le pene d’amore, ma piuttosto l’angoscia di essere incinta e non sapere come dirlo ai genitori. Questo nuovo significato sarebbe stato ulteriormente sottolineato dall’ultimo verso: “te si’ cagnata pure tu / e te prepar’a ddi’ ‘stu’ si / ma din’t’a chiesa do’ gesu'”, suggerendo un matrimonio indesiderato, ma riparatore.
Tuttavia, una semplice modifica ha permesso alla canzone di avere il significato che oggi conosciamo: la storia di una giovane studentessa, bella, allegra e spensierata, che scopre l’amore e le sue difficoltà.
Penso automaticamente ad Artemisia Gentileschi. Agostino Tassi le propose di sposarlo (il matrimonio riparatore vale anche per gli stupri). Artemisia cedette sotto le pressioni morali dell’epoca, poiché così poteva estinguersi il reato carnale, a discapito, ovviamente, della vittima. Il matrimonio non avverrà mai: il Tassi era già sposato e solo allora, il padre della pittrice che all’epoca tacque sulla vicenda, si convinse nel difendere la ragazza, richiedendo anche ufficialmente l’aiuto dell’allora pontefice, querelando lo stupratore della figlia.
Non si conosce il destino di Lazzarella ma mi piace pensare, sperare, che con coraggio porti avanti una sua scelta, qualunque essa sia. Me lo ricorda un’altra eroina napoletana ora conosciuta: Maria Puteolana, la Virago di Pozzuoli. Di lei non sappiamo molto, ma possiamo trarne un’idea dalle parole di Francesco Petrarca che la conobbe alla corte di Roberto d’Angiò:
Aveva destrezza insolita e rarissima, forza, età, portamento, desideri di uomo prode; non tele ma archi, non aghi e specchi ma frecce e brocchieri usava, e nel corpo non baci e lascivia ma ferite ed onorate cicatrici.
Maria, nata a Pozzuoli nel XIV sec. sotto il dominio angioino, era piena di modestia, conduceva una vita estremamente tranquilla. Ma sin dall’adolescenza, rifiutava i dettami femminili dell’epoca, rafforzando sempre più le sue capacità fisiche e di combattimento. Quando la sua terra venne attaccata dai saraceni, scese in battaglia. La si crede la prima soldatessa la mondo. Morì vergine, “famosissima virago Maria, detta poi Maria Puteolana”. Sempre Petrarca, nel quinto libro delle Epistolae Familiares, chiese al cardinale Colonna, che “nulla di lei fosse poi nel tempo, dimenticato”.[6]
Napoli e la Donna: Palomma ‘e notte.
La canzone ha origine da una poesia scritta da Salvatore Di Giacomo in onore del suo amore, Elisa Avignano. Il loro incontro avvenne nel 1905, quando il poeta aveva 45 anni, mentre Elisa aveva 26. Lei studiava per diventare insegnante, desiderando ottenere l’indipendenza dalla protezione ingombrante della sua famiglia. L’amore tra i due fu classicamente travagliato e appassionato. Dopo la morte del poeta nel 1934, Elisa devastata dal dolore, distrusse tutte le lettere e le poesie che il marito le aveva scritto nel corso della loro relazione. Dimenticò però un cassetto contenente scritti che coprivano il periodo dal 1906 al 1911. In uno di questi è custodito Palomma ‘e notte. La poesia fu musicata nel 1907 da Francesco Buongiovanni. Il testo della canzone vede una farfalla come protagonista, a rischio di bruciarsi perché si avvicina troppo a una fiamma. Anche l’autore rimane affascinato dalla fiamma e, cercando di allontanare la farfalla per proteggerla, finisce per bruciarsi. Evidentemente, la “palomma” è Elisa, e Salvatore, cercando di allontanarla, finisce per esserne coinvolto e ferito.
Credo che Palomma possa riguardare tutte noi, che nel nostro piccolo, combattiamo tante battaglie che stare qui a descriverle impiegherebbe anni, scomodando tutte le grandi della storia. Ragionavo a voce alta con Emanuela: è vero che l’amore a volte, salva. Chi l’ha detto però che la farfalla, stava rischiando veramente di bruciarsi? Le donne di cui abbiamo parlato e tra loro mille altre, hanno giocato veramente col fuoco, ed anche chi ci ha perso (veramente) la testa è caduta comunque all’in piedi. Oppure, l’amore per il quale è valso la pena rischiare: quello sì, le ha salvate.
Vatténn”a lloco!
Vatténne, pazzarella!
Va’, palummella e torna
E torna a st’aria
Accussí fresca e bella!
‘O bbi’ ca i’ pure
Mm’abbaglio chianu chiano
E che mm’abbrucio ‘a mano
Pe’ te ne vulé cacciá?
Le mie nonne.
[1] consiste nel legare delle cordicelle intorno alle dita del testimone mentre è sotto giuramento e stringerle per forzarlo a dire la verità
[2] Alcune di loro sono nate a Roma, ma di adozione appartenenza morale la nostra città
[3] www.visitnaples.eu/napoletanita/racconti-di-napoli/cinque-donne-che-hanno-fatto-la-storia-di-napoli
[4] Ibidem
[5] www.napoligrafia.it/musica/testi/naBruna.htm
[6] www.visitnaples.eu/napoletanita/racconti-di-napoli/cinque-donne-che-hanno-fatto-la-storia-di-napoli
Di Alessia Thomas
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